Centro Studi e Ricerche SLR

Centro Studi e Ricerche SLR

venerdì 24 luglio 2015

La responsabilità, penale e civile, del gestore del pub per gli schiamazzi dei clienti

Cassazione, Sez. Lavoro, 23 giugno 2015, n. 12967


Il gestore di un pub ha il potere-dovere di cacciare i clienti particolarmente rumorosi se i loro schiamazzi arrecano disturbo alla quiete pubblica. In tal senso ha statuito la Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 12967 del 23 giugno 2015.
Nel caso specifico, la Suprema Corte ha confermato la condanna inflitta dal Tribunale di Torino alla proprietaria di un pub in base all’art. 659, comma 1, c.p. La norma, com’è noto, dispone che «1. Chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici, è punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 309 euro. 2. Si applica l’ammenda da 103 euro a 516 euro a chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell’Autorità».
La donna era finita sotto accusa poiché dal suo locale provenivano rumori intollerabili dovuti agli schiamazzi di alcuni clienti, i quali arrecavano disturbo alla quiete del riposo dei vicini. In Cassazione, l’imputata contestava la propria responsabilità affermando, tra le altre, che la norma penale in oggetto non dovrebbe trovare applicazione nei confronti del gestore di un locale con riferimento a condotte poste in essere da terzi.
La Suprema Corte, tuttavia, ha confermato la condanna della donna affermando che la qualità di titolare della gestione comporta l’assunzione dell’obbligo giudico di controllare che la frequentazione del locale, da parte dei clienti, non sfoci in condotte contrastanti con l’ordine pubblico. Inoltre, se gli schiamazzi si verificano all’interno dell’esercizio commerciale, il gestore ha sicuramente la possibilità di impedirli, esercitando tra l’altro lo ius excludendi, vale a dire il diritto di escludere i clienti non graditi dal locale, potendo addirittura richiedere l’intervento delle Autorità di pubblica sicurezza al fine di evitare che determinate condotte sfocino in comportamenti contrastanti con le norme poste a tutela della tranquillità pubblica.
Sarà sufficiente, dunque, provare che il gestore del locale non ha esercitato il proprio potere-dovere di controllo, al fine di ottenere la condanna nonché il risarcimento del danno subìto.


mercoledì 22 luglio 2015

La "doppia faccia" del danno alla persona

Cassazione Civile, Sez. III, 9 giugno 2015, n. 11851


La Corte di Cassazione, sez. III, civile, nella sentenza n. 11851, del 09/06/2015, affronta e approfondisce il più volte discusso tema del danno alla persona.
La sentenza in esame ha ad oggetto la richiesta di risarcimento danni, nello specifico, non patrimoniali, patiti dal marito e dal figlio, in conseguenza della malattia e del successivo decesso, rispettivamente, della moglie e della madre, affetta da carcinoma maligno all’utero, che se tempestivamente diagnosticato, avrebbe potuto essere curato.
I familiari, dinnanzi al Tribunale di Venezia, avevano ottenuto il riconoscimento della responsabilità in capo alla clinica e al medico, oltre al ristoro del danno non patrimoniale, nell’ammontare di 1 milione 816 euro.
In secondo grado la Corte d’Appello di Venezia, riconfermando l’an , riduce il risarcimento a 580.816 euro.
Il medico ritenuto responsabile dell’omessa tempestiva diagnosi, ricorre in Cassazione, ove resistono, con ricorsi incidentali i familiari della vittima, e la clinica.
Superando una visione unitaria di danno alla persona, considerata riduttiva, vieni qui individuata una visione più ampia, e completa.
La Suprema Corte, nella sentenza in esame, dopo aver indicato la base normativa sia del danno esistenziale che è rappresentata dagli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni Private (d.lgs. n. 209 del 2005), che del danno morale, rappresentata dal d.P.R. n. 31 del 2009 e n. 191 del 2009, afferma che si tratta di danni diversi e autonomamente risarcibili, reiterando così la legittimità del danno morale, ma in una duplice veste: quella di tipo relazionale e quella di natura interiore.

Sarà compito del giudice valutare, di volta in volta, quindi, sia la sofferenza morale interiore, sia l’alterazione dei precedenti aspetti dinamico- relazionali del soggetto leso. 

venerdì 17 luglio 2015

Il risarcimento danni per il pedone investito da un tram: fondamento normativo e onere probatorio

Cassazione Civile, Sez. III, 29 maggio 2015, n. 11192


Con la sentenza in oggetto, la Suprema Corte si è pronunciata in merito ad una particolare tipologia di sinistro stradale riguardante l’investimento di un pedone da parte di un tram dell’azienda ATAC di Roma.
Il fatto, risalente al 1996, dopo un annullamento con rinvio operato dalla stessa Corte con la sentenza n. 2134 del 2006, è stato nuovamente portato all’attenzione del Giudice di legittimità facendo leva su una serie di censure di fatto che sono state rigettate in pieno. Quel che qui interessa, invece, è la questione relativa all’applicabilità ai sinistri causati da «veicoli a guida di rotaie» dell’art. 2054 c.c., e della relativa presunzione di responsabilità del conducente.
Com’è noto, in base all’art. 2054, comma 1, c.c., «Il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno». Orbene, risulta evidente come il tenore letterale della norma escluda esplicitamente dal proprio ambito di applicabilità i veicoli a guida vincolata su rotaie, quali sono i convogli tranviari.
In uno dei pochissimi precedenti in materia, la Cassazione aveva già statuito che «Nel caso di scontro fra un tram ed un veicolo senza guida di rotaie, il conducente del primo veicolo, ancorché non soggetto alla presunzione stabilita dall'art. 2054, secondo comma, cod. civ., può tuttavia essere ritenuto responsabile a norma dell'art. 2043 cod. civ.». Nella pronuncia odierna, la conclusione del Giudice di legittimità è la medesima, e si fonda su due elementi pacifici: da un lato, il dato letterale dell’art. 2054 c.c. che, ripetiamo, esclude dal proprio ambito di applicabilità i «veicoli a guida di rotaie»; dall’altro, l’obbligo comunque gravante sul conducente di tali veicoli di rispettare le regole della circolazione stradale, pena l’insorgere di un sua responsabilità in base al principio generale del neminem laedere.
Tale conclusione, tuttavia, determina un’inversione dell’onere probatorio. Sarà infatti onere dell’attore provare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, ossia il fatto illecito, il danno ingiusto, il nesso di causalità tra fatto e danno, la colpevolezza dell’agente e l’imputabilità del fatto lesivo allo stesso.

lunedì 13 luglio 2015

Guida in stato di ebbrezza anche in bici (Cassazione Pen., Sez. IV, 28/04/2015, n. 17684)

La Cassazione ha esaminato il caso di un anziano signore che guidava la propria bicicletta con un tasso alcolemico elevato. L'uomo che non si trovava alla guida di un veicolo a motore è stato condannato dai giudici territoriali perché colpevole del reato di cui all'art. 186, commi 1 e 2 lett. b), d. lgs. 30 aprile 1992 n. 285 per aver circolato sulla pubblica via alla guida di un velocipede, benché fosse in stato di ebbrezza con tasso alcolemico pari a 0,9 g/l. 
Ha proposto ricorso per Cassazione deducendo la violazione di legge in quanto la fattispecie prevista dall'art. 186 cod. strada non può essere applicata  nel caso in cui non si guidi un veicolo a motore. Il ricorrente riteneva che dovesse essere applicata alla sanzione penale il medesimo principio interpretativo espresso dalla giurisprudenza di legittimità a proposito della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, che non può essere applicata a colui il quale si è posto alla guida di un veicolo per la cui circolazione non è stata richiesta alcuna abilitazione. 
Per la Corte il ricorso è infondato, infatti, rigettando la domanda ha osservato che "la prospettazione avanzata dal ricorrente in ordine alla pretesa inapplicabilità della disciplina penalistica della guida in stato di ebbrezza alla conduzione di veicoli non motorizzati (e segnatamente della bicicletta), non è condivisibile, essendosi i giudici di merito allineati al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, autorevolmente sostenuto dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte nel 2002, quando si è precisato che 'Se è vero che la reazione dell'ordinamento giuridico, quando si prevede la sanzione accessoria della sospensione della patente di guida, svolge effettivamente funzione cautelare, in quanto le misure rimediano nell'immediato ad uno stato di pericolo concreto, invece il ritiro della patente non potrebbe svolgere alcuna funzione cautelare se la violazione, prevista e punita dall'art. 186 cod. strada fosse commessa alla guida di una bicicletta o di altro veicolo per i quali non sia richiesta la patente. In questi casi, l'agente che accerti la violazione e si preoccupi, come deve, che l'autore della stessa non circoli, con quel veicolo, il ritiro di patente non sarebbe affatto di nessun ostacolo, in futuro, alla circolazione, non essendo previsto per lo stesso il possesso della patente' da ciò si desume chiaramente la pacifica rilevanza penale della condotta di guida in stato di ebbrezza qualora il mezzo di circolazione sia una bicicletta indipendentemente dall'applicabilità delle sanzioni amministrative accessorie previste dalla norma violata".
In conclusione continuano i giudici "si deve ribadire che il reato di guida in stato di ebbrezza può essere commesso attraverso la conduzione di una bicicletta, e a tal fine rivestendo un ruolo decisivo la concreta idoneità del mezzo usato a interferire sulle generali condizioni di regolarità e di sicurezza della circolazione stradale ( Sez. 4, n. 4893 del 22/01/2015)".        




mercoledì 24 giugno 2015

Danno non patrimoniale: gli ultimi chiarimenti della Cassazione (nn. 9320 e 12594 del 2015)

da Diritto24.it

Per evitare il rischio che il danno non patrimoniale non venga liquidato nella sua integralità e completezza, e che si cada così nell'errore di dar vita ad un vero e proprio "vuoto risarcitorio", la Suprema Corte torna, con due recentissime sentenze, a fornire precisazioni e chiarimenti circa la corretta interpretazione da attribuire ai principi stabiliti dalle note "sentenze di San Martino" del 2008 (le famose pronunce delle Sezioni Unite, numeri 26972-26976/2008).

Le pronunce in argomento, entrambe dalla terza sezione civile della Cassazione, sono, dalla più remota alla più recente, la numero 9320/2015 (depositata lo scorso 8 maggio) e la numero 12594/2015 (depositata il 18 giugno).

lunedì 8 giugno 2015

Infermiere responsabile se non segnala l'errore al medico

Cassazione penale, sez. IV, sentenza 16/01/2015 n° 2192

da Altalex.it

L’infermiere, in considerazione della qualità e del corrispondente spessore contenutistico della relativa attività professionale, ha un preciso dovere di attendere all'attività di somministrazione dei farmaci in modo non meccanicistico (ossia misurato sul piano di un elementare adempimento di compiti meramente esecutivi), occorrendo viceversa intenderne l'assolvimento secondo modalità coerenti ad una forma di collaborazione con il personale medico orientata in termini critici; e tanto, non già al fine di sindacare l'operato del medico (segnatamente sotto il profilo dell'efficacia terapeutica dei farmaci prescritti), bensì allo scopo di richiamarne l'attenzione sugli errori percepiti (o comunque percepibili), ovvero al fine di condividerne gli eventuali dubbi circa la congruità o la pertinenza della terapia stabilita rispetto all'ipotesi soggetta a esame.

venerdì 5 giugno 2015

Responsabilità medica: quando sussiste il concorso di colpa del paziente?

Corte d'Appello, Roma, sentenza 11/03/2015 n° 1667

da Altalex.it

Il concorso di colpa del paziente (ex art. 1227 c.c.), consistito nell’essersi procurato la lesione che ha reso necessario l’intervento sanitario, riduce proporzionalmente la responsabilità del medico.
È questo, in estrema sintesi, il principio espresso dalla Corte di Appello di Roma nella sentenza n. 1667 del 2015, resa nel delicato settore della responsabilità civile in campo medico, recentemente interessato da una serie di pronunce (da ultimo, la più importante del Tribunale di Milano del 17 luglio 2014) che vanno tutte nella direzione di un temperamento di tale forma di responsabilità al fine di arginare il noto fenomeno della “medicina difensiva”.