Centro Studi e Ricerche SLR

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mercoledì 25 gennaio 2012

Il danno tanatologico: qualificazione e responsabilità

Articolo pubblicato sulla rivista giuridica "La Tribuna", n° 12, del
Dicembre 2011.

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Con il termine “danno tanatologico” in linea di prima approssimazione si fa riferimento al danno derivante dalla morte di un individuo, a causa di una condotta illecita da parte di un terzo.
Appare, invero, di grande attualità la discussione giurisprudenziale e dottrinale inerente la corretta definizione di tale fattispecie di danno, il profilo della sua autonomia rispetto ad altre figure quali il danno morale, biologico od esistenziale e, in generale, il suo controverso posizionamento all’interno dell’ordinamento giuridico.
Con riferimento al danno tanatologico, infatti, non solo non è dato rinvenire un esplicito referente normativo, ma appare inoltre controversa la stessa valutazione degli elementi necessari a determinarne la risarcibilità.
A tal proposito, uno dei punti più discussi è la distinzione tra le pretese risarcitorie esercitabili jure proprio da parte di chi aveva con il defunto legami affettivi, familiari o di lavoro da quelle esercitabili jure hereditatis. Su tale questione, che costituisce il punto nevralgico di ogni discussione sull’argomento, si concentra l’interesse degli operatori di diritto e pertanto andrà di seguito adeguatamente approfondita.



Con riferimento alle pretese risarcitorie esercitabili jure proprio da parte delle c.d. vittime di rimbalzo, è oramai considerato un dato pacifico in giurisprudenza quello per cui esse sono riconducibili non solo agli eredi, ma anche a coloro che avevano legami non estemporanei con il defunto, i quali, pertanto, potranno agire per il risarcimento del danno subìto in prima persona a causa dell’evento morte del proprio congiunto o amico, fermo restando, naturalmente, l’onere della prova a loro carico del nesso di causalità e della lesione subita nella propria integrità psico-fisica (in questo senso, fra le altre, Cassazione civile, sez. III, 28 novembre 2007, n. 24745).
In tale particolare accezione, il danno per morte va preso in considerazione quale peculiare voce o aspetto dei danni non patrimoniali subiti direttamente da tutti coloro che con il defunto erano legati da particolari legami affettivi e che possono essere definiti in linea generale come danni da perdita del rapporto parentale; essi consistono nel dolore “risentito in proprio, di riflesso, per la consapevolezza del male che il proprio congiunto ebbe a subire, e così via” (Cass. Sez III, Ordinanza 14 dicembre 2010, n. 25264). Trattasi, dunque, di danni non patrimoniali che possono essere fatti valere in quanto subìti personalmente.
Molto più controversa appare invece la questione della risarcibilità del danno da morte in quanto trasmissibile jure hereditatis agli eredi del de cuius (e non ad altri soggetti). Si tratta, cioè, di stabilire se colui che subisce la lesione, nel momento in cui ha la percezione della propria (più o meno prossima) dipartita, ovvero sopravviva per qualche tempo anche in stato di incoscienza, possa maturare un diritto al risarcimento del danno che, in quanto entrato a far parte del suo patrimonio, sarà poi trasmissibile agli eredi (cfr. Cassazione civile, sez. III, 17 gennaio 2008, n. 870).
Tali norme, infatti, avendo ad oggetto la tutela della persona e della sua esistenza possono ben costituire le fondamenta su cui edificare una tutela piena ed efficace del diritto alla vita, intesa come bene autonomamente risarcibile, laddove venga leso.
Chiaramente, nell’ultima sentenza riportata, la Suprema Corte non arriva certo ad affermare tanto, limitandosi a dichiarare che l’entità del danno da morte non dipende dalla durata dell'intervallo tra lesione e morte, bensì dall'intensità della sofferenza provata dalla vittima dell'illecito, il cui risarcimento può essere reclamato dagli eredi della vittima. Ciò non di meno le argomentazioni in essa sviluppate, le quali riconoscono un’autonoma dignità al “bene” vita, appaiono ricche di spunti che lasciano intravedere un possibile positivo sviluppo nel senso appena illustrato ed auspicato.

Per una corretta valutazione di tale ipotesi occorre preliminarmente stabilire se esiste o meno un danno da perdita della vita riconducibile alla stessa persona del defunto e, ancora, se esso sia configurabile come una figura specifica ed autonoma di danno ovvero se sia piuttosto riconducibile alle categorie del danno biologico o morale. Occorrerà, infine, valutare se un eventuale danno di tal fatta possa considerarsi idoneo a configurare un diritto al risarcimento a favore di colui il quale trova la morte a causa di una condotta illecita altrui e se tale diritto, entrato a far parte del suo patrimonio, sia poi trasmissibile agli eredi.
L’ipotesi più frequente in cui la giurisprudenza di merito e di legittimità si è trovata a dover affrontare la questione della risarcibilità o meno del c.d. danno tanatologico, inteso nella sua accezione di danno da perdita del diritto alla vita subito in prima persona dalla vittima, è quella in cui si da il caso di una lesione dell'integrità fisica con esito letale in cui la morte sia intervenuta dopo un esiguo lasso di tempo nel quale, tuttavia, la vittima sia stata in condizione di percepire il proprio stato, abbia cioè vissuto l'angosciosa consapevolezza della fine imminente.
Su tale ipotesi la giurisprudenza si è a lungo divisa e ad oggi non esiste ancora un orientamento nettamente dominante, pur essendo possibile ricostruire delle linee di tendenza ed individuare quello che risulta essere il principale elemento di contrapposizione fra i diversi pronunciamenti giurisprudenziali, vale a dire il problematico inserimento del c.d. danno tanatologico nell’ambito del danno biologico, consistente nel danno non patrimoniale da lesione della salute.  
Nel senso di ricondurre il danno tanatologico nell’alveo del danno biologico, quale particolare ipotesi di danno morale, vi è una parte della giurisprudenza, secondo la quale la sofferenza patita dalla vittima durante l'agonia implica un diritto al risarcimento, il quale può essere fatto valere iure hereditatis unicamente allorché il danneggiato sia stato in condizione di percepire il proprio stato, abbia cioè vissuto l'angosciosa percezione della fine imminente, mentre va esclusa tale forma di risarcimento quando all'evento lesivo sia conseguito immediatamente il coma e il danneggiato non sia rimasto lucido nella fase che precede il decesso (Cass., Sentenza 10 marzo - 9 maggio 2011, n. 10107).
Tale orientamento si pone sulla stessa scia della storica sentenza n. 26972/08 delle Sezioni Unite della Cassazione. La Corte, fra i numerosi altri argomenti, si sofferma a valutare il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo. “Tale sofferenza”, secondo la Corte, “non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione”.
Lo stesso orientamento espresso dalla Sezioni Unite è stato quindi ribadito ed approfondito in altre e successive sentenze della Cassazione, la quale ha affermato che "il danno cosiddetto "tanatologico" o da morte immediata va ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso nella sua più ampia accezione, come sofferenza della vittima che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita" (v. Cass. 13-1-2009 n. 458, v. anche Cass. 8-4-2010 n. 8360). Tale danno, inoltre, come pure è stato precisato, "non rientra nella nozione di danno biologico recepita dal D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13" (v. Cass. 27-5-2009 n. 12326)” (cfr. Cass., sentenza 7 giugno 2010, n. 13672).
La Suprema Corte, inoltre, sempre nella appena citata sentenza emessa a Sezioni Unite, n. 26972/08, ha affermato che “la brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni, se esclude l'apprezzabilità ai fini risarcitori del deterioramento della qualità della vita in ragione del pregiudizio della salute, ostando alla configurabilità di un danno biologico risarcibile, non esclude viceversa che la vittima abbia potuto percepire le conseguenze catastrofiche delle lesioni subite e patire sofferenza, il diritto al cui risarcimento, sotto il profilo del danno morale, risulta pertanto già entrato a far parte del suo patrimonio al momento della morte, e può essere conseguentemente fatto valere "iure hereditatis" (nello stesso senso, cfr. Cass. 31-5-2005 n. 11601, Cass. 6-8-2007 n. 17177, cfr. anche Cass. 14-2-2007 n. 3260 sull'entità di tale danno).
Dunque, secondo tali recenti letture, i parenti della vittima hanno diritto, oltre al risarcimento del danno morale proprio, anche di quello cosiddetto tanatologico. In tal senso, occorre ricordare anche il pronunciamento della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 8 aprile 2010, n. 8360 secondo la quale, nel quantificare la somma dovuta in risarcimento dei danni morali ai parenti, occorre tenere conto anche "della sofferenza psichica subita dalla vittima di lesioni alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine".
Con riferimento alle ipotesi appena riportate, parte della dottrina e della giurisprudenza tendono a parlare più specificamente di danno catastrofale, da distinguere da quello tanatologico propriamente detto; quest’ultimo, inteso come danno da perdita del diritto alla vita, non potrebbe essere fatto valere iure successionis dagli eredi del de cuius, per l'impossibilità tecnica di configurare l'acquisizione di un diritto risarcitorio derivante dalla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del titolare, e da questo fruibile solo in natura. Si afferma, infatti, che “posto che finché il soggetto è in vita, non vi è lesione del suo diritto alla vita, mentre, sopravvenuto il decesso, il morto, in quanto privo di capacità giuridica, non è in condizione di acquistare alcun diritto, il risarcimento finirebbe per assumere, in casi siffatti, un'anomala funzione punitiva, particolarmente percepibile laddove il risarcimento dovesse essere erogato a eredi diversi dai congiunti o, in mancanza di successibili, addirittura allo Stato” (Cass., Sentenza 10 marzo - 9 maggio 2011, n. 10107; nello stesso senso, Cass. civ. 28 novembre 2008, n. 28423; Cass. civ. 24 marzo 2011, n. 6754).
Vi è poi, accanto a tali interpretazioni, un orientamento almeno apparentemente differente, ma solo nelle premesse di base, che afferma la natura ontologicamente diversa del danno tanatologico per perdita del diritto alla vita rispetto al danno alla salute risarcibile ex art. 32 Cost., visto che, si dice, la morte dell’individuo non può essere qualificata come estremo del danno alla propria salute. Mentre la morte, infatti, nega la possibilità di sopravvivenza della persona, la salute presuppone tale sopravvivenza; pertanto, “posto che la morte attiene al bene giuridico della vita, come tale diverso da quello della salute (in quanto la perdita della vita non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute), il danno tanatologico non può rientrare nella nozione di danno biologico […]” (Cass. Sez. III, Ordinanza 14 dicembre 2010, n. 25264). Da ciò ne deriverebbe che ove l’atto illecito altrui cagioni la morte immediata di un soggetto, gli eredi del defunto non avrebbero diritto ad acquistare per successione alcun diritto al risarcimento del danno biologico subìto dal de cuius poiché l’acquisto di qualsiasi diritto al risarcimento presupporrebbe l’esistenza in vita del danneggiato (cfr., fra le altre, Sentenza 20 maggio - 3 giugno 2008, Tribunale di Roma, Sezione XII). Peraltro, a sostegno di tale tesi, si rileva come, anche se si volesse astrattamente ipotizzare un’autonoma configurabilità del danno tanatologico, si tratterebbe, comunque, di danno privo del suo titolare, posto che la morte non è altro se non la perdita della vita e, quindi, perdita della capacità del soggetto che subisce tale danno. In altre parole, viene a mancare la persona qualificabile come titolare della pretesa risarcitoria.
Occorre tuttavia rilevare che, nonostante le premesse di tale orientamento appaiano contrastanti rispetto a quelle sopra riportate e che riconducono il danno tanatologico nell’alveo del danno morale (i.e. danno alla salute), gli esiti finali delle due posizioni appaiono tutt’altro che difformi in quanto, anche secondo l’impostazione appena enunciata, è comunque centrale l’aspetto della consapevolezza con cui il danneggiato ha avvertito l’imminenza del proprio tragico destino e della durata (non particolarmente breve) della sua agonia.
Si può, pertanto, affermare che la ormai quasi unanime giurisprudenza, a prescindere dalle premesse concettuali utilizzate, tende a riconoscere la risarcibilità jure hereditatis del danno tanatologico (o, forse, sarebbe più corretto dire del danno catastrofale), purché l’incidente subito non comporti una morte immediata e purchè la vittima abbia avuto percezione della fine imminente.
 Ciò detto, rimane ora da approfondire la questione relativa alla quantificazione dello spazio temporale di sopravvivenza del soggetto leso ai fini della maturazione a suo favore di un diritto al risarcimento per perdita della vita, diritto che dovrebbe poi succedere agli eredi.
Come visto, quello in discussione è un punto quanto mai sfuggente e di difficile definizione.
Da un lato si parla di “apprezzabile lasso di tempo, sì da potersi concretamente configurare un'effettiva compromissione dell'integrità psicofisica del soggetto leso, non già quando la morte sia sopraggiunta immediatamente o comunque a breve distanza dall'evento” e, contemporaneamente, si afferma che “la sofferenza patita dalla vittima durante l'agonia è risarcibile e può essere fatto valere iure hereditatis unicamente allorché essa sia stata in condizione di percepire il proprio stato, abbia cioè avuto l'angosciosa consapevolezza della fine imminente, mentre va esclusa quando all'evento lesivo sia conseguito immediatamente il coma e il danneggiato non sia rimasto lucido nella fase che precede il decesso” (Cass. Sentenza 10 marzo - 9 maggio 2011, n. 1010; cfr. anche Cass. civ. 28 novembre 2008, n. 28423; Cass. civ. 24 marzo 2011, n. 6754).
In alcuni casi, peraltro, quella della questione temporale assume una rilevanza preponderante a discapito dell’aspetto relativo alla sofferenza effettivamente patita dalla vittima; sicché non si pone in discussione la possibilità o meno che la vittima abbia potuto rendersi conto della gravità del fatto, ma viene a priori esclusa ogni forma di risarcibilità per un danno che non si sia verificato in un intervallo temporale ritenuto “apprezzabile”, dove per apprezzabile si intende un lasso di tempo di almeno alcuni giorni. In tal senso vedasi Cass. Civ., sez. III, sentenza n. 15706/2010 o anche la sentenza del Tribunale di Piacenza n. 458/2010, secondo la quale “il risarcimento, nel caso di morte non istantanea, è configurabile solo laddove tra la data dell’incidente e morte stessa intercorra un apprezzabile periodo di tempo  (cfr. Cassazione Civ. n. 870/2008, Cassazione civ. n. 20188/2008) pari a qualche giorno (Cassazione n. 3549/2004) e non solo a mezz’ora (Cassazione civ. n. 13585/2004)”.
Non mancano tuttavia recentissime prese di posizione che lasciano presagire importanti aperture da parte della giurisprudenza di legittimità nel senso di riconoscere una maggiore dignità ed autonomia al danno tanatologico. Ad esempio la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza del 18 gennaio 2011, n. 1072, pur rifacendosi alla ormai tradizionale affermazione secondo cui l'evento morte non rileva di per sé ai fini del risarcimento, atteso che la morte sarebbe fuori dal danno biologico – poiché, si dice, il danno alla salute presuppone pur sempre un soggetto in vita – quasi inaspettatamente poi afferma che “nessun danno alla salute è più grave, per entità ed intensità, di quello che, trovando causa nelle lesioni che esitano nella morte, temporalmente la precede. In questo caso, infatti, il danno alla salute raggiunge quantitativamente la misura del 100%, con l'ulteriore fattore "aggravante", rispetto al danno da inabilità temporanea assoluta, che il danno biologico terminale è più intenso perché l'aggressione subita dalla salute dell'individuo incide anche sulla possibilità di essa di recuperare (in tutto o in parte) le funzionalità perdute o quanto meno di stabilizzarsi sulla perdita funzionale già subita, atteso che anche questa capacità recuperatoria o, quanto meno stabilizzatrice, della salute risulta irreversibilmente compromessa. La salute danneggiata non solo non recupera (cioè non "migliora") nè si stabilizza, ma degrada verso la morte; quest'ultimo evento rimane fuori dal danno alla salute, per i motivi sopra detti, ma non la "progressione" verso di esso, poichè durante detto periodo il soggetto leso era ancora in vita (in tal senso, Cass. sez. 3^, 23.6.2006 n. 3766)”. In conseguenza di tali affermazioni, la Suprema Corte afferma di dover aderire al principio secondo cui, in caso di lesione che abbia portato a breve distanza di tempo ad esito letale, sussiste in capo alla vittima che abbia percepito lucidamente l'approssimarsi della morte, un danno biologico di natura psichica, la cui entità non dipende dalla durata dell'intervallo tra lesione e morte, bensì dall'intensità della sofferenza provata dalla vittima dell'illecito ed il cui risarcimento può essere reclamato dagli eredi della vittima. (in senso non dissimile si erano già espresse, peraltro, Cass. sez. 3^, 14.2.2007 n. 3260; Cass. sez. 3^, 2.4.2001 n. 4783). Ritenuta pertanto l'irrilevanza del lasso di tempo intercorrente fra il sinistro e l'evento letale, la Corte osserva che il giudice, nel caso ritenga di applicare i criteri di liquidazione tabellare o a punto, debba procedere necessariamente alla cd. "personalizzazione" degli stessi, costituita dall'adeguamento al caso concreto atteso che, come già più volte ribadito dalla stessa Corte, la legittimità dell'utilizzazione di detti ultimi sistemi liquidatori è pur sempre fondata sul potere di liquidazione equitativa del giudice.
Tale ultimo pronunciamento risulta particolarmente significativo, sotto diversi punti di vista. In esso, come visto, si afferma che con la morte il danno alla salute raggiunge quantitativamente la misura del 100%, con l'ulteriore fattore "aggravante", rispetto al danno da inabilità temporanea assoluta, della non recuperabilità di qualunque funzionalità perduta. La morte, pur rimando fuori dal danno alla salute, ne costituisce la sua "progressione". In tale prospettiva, a nostro parere, il danno da perdita della vita assume una nuova autonomia, emancipandosi dalla prospettiva classica che lo vede vincolato ai criteri risarcitori normalmente utilizzati con il danno biologico, per il quale, giustamente, l’elemento temporale assume un’importanza centrale nella determinazione della liquidazione del risarcimento. Infatti, se il danno per la perdita della vita va considerato come l’estrema “progressione” del danno alla salute e per ciò stesso è più grave, per entità ed intensità, di quello […]” delle lesioni”, allora, come logica conseguenza, esso dovrà essere ritenuto risarcibile di per sé, anche in assenza di un apprezzabile intervallo tra lesione e morte. Si dovrebbe anzi concludere, sul filo della coerenza, che anche la sofferenza provata dalla vittima dell'illecito debba ritenersi di importanza relativa, necessaria casomai per determinare il quantum e non l’an  del risarcimento. In extremis, si potrebbe arrivare ad affermare la risarcibilità del danno tanatologico anche in caso di morte immediata.
Peraltro, una tale conclusione non sarebbe da considerarsi eccessiva né aliena rispetto ai principi propri del nostro ordinamento. Laddove, infatti, la vita venga intesa e tutelata, come sarebbe giusto, alla stregua di un bene primario dell’individuo – così come avviene con il diritto alla salute – una tale conclusione apparirebbe naturale ed ovvia. Né mancherebbero le norme a cui un tale riconoscimento ed una tale tutela potrebbero ancorarsi. Fra queste, ovviamente, vi sarebbe l'art. 2 della Costituzione, da interpretarsi in combinato disposto con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950
Tali norme, infatti, avendo ad oggetto la tutela della persona e della sua esistenza possono ben costituire le fondamenta su cui edificare una tutela piena ed efficace del diritto alla vita, intesa come bene autonomamente risarcibile, laddove venga leso.
Chiaramente, nell’ultima sentenza riportata, la Suprema Corte non arriva certo ad affermare tanto, limitandosi a dichiarare che l’entità del danno da morte non dipende dalla durata dell'intervallo tra lesione e morte, bensì dall'intensità della sofferenza provata dalla vittima dell'illecito, il cui risarcimento può essere reclamato dagli eredi della vittima. Ciò non di meno le argomentazioni in essa sviluppate, le quali riconoscono un’autonoma dignità al “bene” vita, appaiono ricche di spunti che lasciano intravedere un possibile positivo sviluppo nel senso appena illustrato ed auspicato.
                                
Avv. Davide Rolli
Coordinatore Centro Studi e Ricerche - "Danni alla persona"

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