Articolo pubblicato sulla rivista giuridica "La Tribuna", n° 12, del
Dicembre 2011.
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Con
il termine “danno tanatologico” in linea di prima approssimazione si fa
riferimento al danno derivante dalla morte di un individuo, a causa di una
condotta illecita da parte di un terzo.
Appare, invero, di grande attualità la discussione
giurisprudenziale e dottrinale inerente la corretta definizione di tale
fattispecie di danno, il profilo della sua autonomia rispetto ad altre figure
quali il danno morale, biologico od esistenziale e, in generale, il suo
controverso posizionamento all’interno dell’ordinamento giuridico.
Con
riferimento al danno tanatologico, infatti, non solo non è dato rinvenire un
esplicito referente normativo, ma appare inoltre controversa la stessa valutazione
degli elementi necessari a determinarne la risarcibilità.
A
tal proposito, uno dei punti più discussi è la distinzione tra le pretese
risarcitorie esercitabili jure proprio da parte di chi aveva
con il defunto legami affettivi, familiari o di lavoro da quelle esercitabili jure
hereditatis. Su tale questione, che costituisce il punto nevralgico di
ogni discussione sull’argomento, si concentra l’interesse degli operatori di
diritto e pertanto andrà di seguito adeguatamente approfondita.
Con riferimento alle pretese risarcitorie esercitabili jure proprio da parte delle c.d. vittime di rimbalzo, è oramai considerato un dato pacifico in giurisprudenza quello per cui esse sono riconducibili non solo agli eredi, ma anche a coloro che avevano legami non estemporanei con il defunto, i quali, pertanto, potranno agire per il risarcimento del danno subìto in prima persona a causa dell’evento morte del proprio congiunto o amico, fermo restando, naturalmente, l’onere della prova a loro carico del nesso di causalità e della lesione subita nella propria integrità psico-fisica (in questo senso, fra le altre, Cassazione civile, sez. III, 28 novembre 2007, n. 24745).
In tale particolare accezione, il danno per
morte va preso in considerazione quale peculiare voce o aspetto dei danni non
patrimoniali subiti direttamente da tutti coloro che con il defunto erano
legati da particolari legami affettivi e che possono essere definiti in linea
generale come danni da perdita del rapporto parentale; essi consistono nel
dolore “risentito in proprio, di riflesso,
per la consapevolezza del male che il proprio congiunto ebbe a subire, e così
via” (Cass. Sez III, Ordinanza 14 dicembre 2010, n. 25264). Trattasi,
dunque, di danni non patrimoniali che possono essere fatti valere in quanto
subìti personalmente.
Molto
più controversa appare invece la questione della risarcibilità del danno da
morte in quanto trasmissibile jure hereditatis agli eredi del
de cuius (e non ad altri soggetti). Si
tratta, cioè, di stabilire se colui che subisce la lesione, nel momento in cui
ha la percezione della propria (più o meno prossima) dipartita, ovvero
sopravviva per qualche tempo anche in stato di incoscienza, possa maturare un
diritto al risarcimento del danno che, in quanto entrato a far parte del suo
patrimonio, sarà poi trasmissibile agli eredi (cfr. Cassazione civile, sez.
III, 17 gennaio 2008, n. 870).
Tali
norme, infatti, avendo ad oggetto la tutela della persona e della sua esistenza
possono ben costituire le fondamenta su cui edificare una tutela piena ed
efficace del diritto alla vita, intesa come bene autonomamente risarcibile,
laddove venga leso.
Chiaramente, nell’ultima sentenza riportata,
la Suprema Corte non arriva certo ad affermare tanto, limitandosi a dichiarare
che l’entità del danno da morte non dipende dalla durata dell'intervallo tra
lesione e morte, bensì dall'intensità della sofferenza provata dalla vittima
dell'illecito, il cui risarcimento può essere reclamato dagli eredi della
vittima. Ciò non di meno le argomentazioni in essa sviluppate, le quali
riconoscono un’autonoma dignità al “bene” vita, appaiono ricche di spunti che
lasciano intravedere un possibile positivo sviluppo nel senso appena illustrato
ed auspicato.
Per
una corretta valutazione di tale ipotesi occorre preliminarmente stabilire se
esiste o meno un danno da perdita della vita riconducibile alla stessa persona
del defunto e, ancora, se esso sia configurabile come una figura specifica ed
autonoma di danno ovvero se sia piuttosto riconducibile alle categorie del
danno biologico o morale. Occorrerà, infine, valutare se un eventuale danno di
tal fatta possa considerarsi idoneo a configurare un diritto al risarcimento a
favore di colui il quale trova la morte a causa di una condotta illecita altrui
e se tale diritto, entrato a far parte del suo patrimonio, sia poi
trasmissibile agli eredi.
L’ipotesi
più frequente in cui la giurisprudenza di merito e di legittimità si è trovata
a dover affrontare la questione della risarcibilità o meno del c.d. danno
tanatologico, inteso nella sua accezione di danno da perdita del diritto alla vita subito in prima persona dalla vittima,
è quella in cui si da il caso di una lesione
dell'integrità fisica con esito letale in cui la morte sia intervenuta dopo un
esiguo lasso di tempo nel quale, tuttavia, la vittima sia stata in condizione
di percepire il proprio stato, abbia cioè vissuto l'angosciosa consapevolezza
della fine imminente.
Su
tale ipotesi la giurisprudenza si è a lungo divisa e ad oggi non esiste ancora
un orientamento nettamente dominante, pur essendo possibile ricostruire delle
linee di tendenza ed individuare quello che risulta essere il principale
elemento di contrapposizione fra i diversi pronunciamenti giurisprudenziali,
vale a dire il problematico inserimento del c.d. danno tanatologico nell’ambito
del danno biologico, consistente nel
danno non patrimoniale da lesione della salute.
Nel
senso di ricondurre il danno tanatologico nell’alveo del danno biologico, quale
particolare ipotesi di danno morale, vi è una parte della giurisprudenza,
secondo la quale la sofferenza patita
dalla vittima durante l'agonia implica un diritto al risarcimento, il quale può
essere fatto valere iure hereditatis unicamente allorché il danneggiato
sia stato in condizione di percepire il proprio stato, abbia cioè vissuto
l'angosciosa percezione della fine imminente, mentre va esclusa tale forma di
risarcimento quando all'evento lesivo sia conseguito immediatamente il coma e
il danneggiato non sia rimasto lucido nella fase che precede il decesso (Cass.,
Sentenza 10 marzo - 9 maggio 2011, n. 10107).
Tale orientamento si pone sulla stessa scia
della storica sentenza
n. 26972/08 delle Sezioni Unite
della Cassazione. La Corte, fra i numerosi altri argomenti, si sofferma
a valutare il tema della risarcibilità della
sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel
caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo. “Tale sofferenza”, secondo la Corte, “non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione
del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere
risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione”.
Lo stesso orientamento espresso dalla Sezioni
Unite è stato quindi ribadito ed approfondito in altre e successive sentenze
della Cassazione, la quale ha affermato che "il danno cosiddetto "tanatologico" o da morte immediata va
ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso nella sua più ampia
accezione, come sofferenza della vittima che lucidamente assiste allo spegnersi
della propria vita" (v. Cass. 13-1-2009 n. 458, v. anche Cass. 8-4-2010 n.
8360). Tale danno, inoltre, come pure è stato precisato, "non rientra
nella nozione di danno biologico recepita dal D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38,
art. 13" (v. Cass. 27-5-2009 n. 12326)” (cfr. Cass., sentenza 7 giugno 2010, n. 13672).
La
Suprema Corte, inoltre, sempre nella appena citata sentenza emessa a Sezioni Unite, n.
26972/08, ha affermato che “la
brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni, se esclude l'apprezzabilità
ai fini risarcitori del deterioramento della qualità della vita in ragione del
pregiudizio della salute, ostando alla configurabilità di un danno biologico
risarcibile, non esclude viceversa che la vittima abbia potuto percepire le
conseguenze catastrofiche delle lesioni subite e patire sofferenza, il diritto
al cui risarcimento, sotto il profilo del danno morale, risulta pertanto già
entrato a far parte del suo patrimonio al momento della morte, e può essere
conseguentemente fatto valere "iure hereditatis" (nello stesso
senso, cfr. Cass. 31-5-2005 n. 11601, Cass. 6-8-2007 n. 17177, cfr. anche Cass.
14-2-2007 n. 3260 sull'entità di tale danno).
Dunque, secondo tali recenti letture, i
parenti della vittima hanno diritto, oltre al risarcimento del danno morale
proprio, anche di quello cosiddetto tanatologico. In tal senso, occorre
ricordare anche il pronunciamento della Terza Sezione Civile della Corte di
Cassazione, con la sentenza 8 aprile 2010, n. 8360 secondo la quale, nel
quantificare la somma dovuta in risarcimento dei danni morali ai parenti,
occorre tenere conto anche "della
sofferenza psichica subita dalla vittima di lesioni alle quali sia seguita dopo
breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole
attesa della fine".
Con riferimento alle ipotesi appena
riportate, parte della dottrina e della giurisprudenza tendono a parlare più
specificamente di danno catastrofale, da distinguere da quello tanatologico
propriamente detto; quest’ultimo, inteso come danno da perdita del diritto alla
vita, non potrebbe essere fatto valere iure successionis dagli eredi del
de cuius, per l'impossibilità tecnica
di configurare l'acquisizione di un diritto risarcitorio derivante dalla
lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del titolare, e da
questo fruibile solo in natura. Si afferma, infatti, che “posto che finché il soggetto è in vita, non vi è lesione del suo
diritto alla vita, mentre, sopravvenuto il decesso, il morto, in quanto privo
di capacità giuridica, non è in condizione di acquistare alcun diritto, il
risarcimento finirebbe per assumere, in casi siffatti, un'anomala funzione
punitiva, particolarmente percepibile laddove il risarcimento dovesse essere
erogato a eredi diversi dai congiunti o, in mancanza di successibili,
addirittura allo Stato” (Cass., Sentenza 10 marzo - 9 maggio 2011, n.
10107; nello stesso senso, Cass.
civ. 28 novembre 2008, n. 28423; Cass. civ. 24 marzo 2011, n. 6754).
Vi è poi, accanto a tali interpretazioni, un
orientamento almeno apparentemente differente, ma solo nelle premesse di base, che
afferma la natura ontologicamente diversa del danno tanatologico per perdita
del diritto alla vita rispetto al danno alla salute risarcibile ex art. 32
Cost., visto che, si dice, la morte dell’individuo non può essere qualificata
come estremo del danno alla propria salute. Mentre la morte, infatti, nega la
possibilità di sopravvivenza della persona, la salute presuppone tale
sopravvivenza; pertanto, “posto che la
morte attiene al bene giuridico della vita, come tale diverso da quello della
salute (in quanto la perdita della vita non costituisce la massima lesione
possibile del diritto alla salute), il danno tanatologico non può rientrare
nella nozione di danno biologico […]” (Cass. Sez. III, Ordinanza 14
dicembre 2010, n. 25264). Da ciò ne deriverebbe che ove l’atto illecito altrui cagioni la morte immediata di un soggetto,
gli eredi del defunto non avrebbero diritto ad acquistare per successione alcun
diritto al risarcimento del danno biologico subìto dal de cuius poiché l’acquisto di qualsiasi diritto al risarcimento
presupporrebbe l’esistenza in vita del danneggiato (cfr., fra le altre,
Sentenza 20 maggio - 3 giugno 2008, Tribunale di Roma, Sezione XII). Peraltro, a sostegno di
tale tesi, si rileva come, anche se si volesse astrattamente ipotizzare
un’autonoma configurabilità del danno tanatologico, si tratterebbe, comunque,
di danno privo del suo titolare, posto che la morte non è altro se non la
perdita della vita e, quindi, perdita della capacità del soggetto che subisce
tale danno. In altre parole, viene a mancare la persona qualificabile come
titolare della pretesa risarcitoria.
Occorre
tuttavia rilevare che, nonostante le premesse di tale orientamento appaiano contrastanti
rispetto a quelle sopra riportate e che riconducono il danno tanatologico nell’alveo
del danno morale (i.e. danno alla
salute), gli esiti finali delle due posizioni appaiono tutt’altro che difformi
in quanto, anche secondo l’impostazione appena enunciata, è comunque centrale
l’aspetto della consapevolezza con cui il danneggiato ha avvertito l’imminenza
del proprio tragico destino e della durata (non particolarmente breve) della
sua agonia.
Si
può, pertanto, affermare che la ormai quasi unanime giurisprudenza, a
prescindere dalle premesse concettuali utilizzate, tende a riconoscere la
risarcibilità jure hereditatis del
danno tanatologico (o, forse, sarebbe più corretto dire del danno catastrofale),
purché l’incidente subito non comporti una morte immediata e purchè la vittima
abbia avuto percezione della fine imminente.
Come
visto, quello in discussione è un punto quanto mai sfuggente e di difficile
definizione.
Da
un lato si parla di “apprezzabile lasso di tempo, sì da potersi
concretamente configurare un'effettiva compromissione dell'integrità
psicofisica del soggetto leso, non già quando la morte sia sopraggiunta
immediatamente o comunque a breve distanza dall'evento” e, contemporaneamente, si afferma che “la sofferenza patita dalla vittima durante
l'agonia è risarcibile e può essere fatto valere iure hereditatis unicamente allorché essa sia stata in
condizione di percepire il proprio stato, abbia cioè avuto l'angosciosa
consapevolezza della fine imminente, mentre va esclusa quando all'evento lesivo
sia conseguito immediatamente il coma e il danneggiato non sia rimasto lucido
nella fase che precede il decesso” (Cass. Sentenza 10 marzo - 9 maggio
2011, n. 1010; cfr. anche Cass. civ. 28 novembre 2008, n. 28423; Cass. civ. 24
marzo 2011, n. 6754).
In
alcuni casi, peraltro, quella della questione temporale assume una rilevanza
preponderante a discapito dell’aspetto relativo alla sofferenza effettivamente
patita dalla vittima; sicché non si pone in discussione la possibilità o meno
che la vittima abbia potuto rendersi conto della gravità del fatto, ma viene a
priori esclusa ogni forma di risarcibilità per un danno che non si sia
verificato in un intervallo temporale ritenuto “apprezzabile”, dove per
apprezzabile si intende un lasso di tempo di almeno alcuni giorni. In tal senso
vedasi Cass. Civ., sez.
III, sentenza n. 15706/2010 o anche la sentenza del Tribunale di Piacenza n.
458/2010, secondo la quale “il
risarcimento, nel caso di morte non istantanea, è configurabile solo laddove
tra la data dell’incidente e morte stessa intercorra un apprezzabile periodo di
tempo (cfr. Cassazione Civ. n.
870/2008, Cassazione civ. n. 20188/2008) pari
a qualche giorno (Cassazione n. 3549/2004) e non solo a mezz’ora (Cassazione civ. n. 13585/2004)”.
Non mancano tuttavia recentissime prese di
posizione che lasciano presagire importanti aperture da parte della
giurisprudenza di legittimità nel senso di riconoscere una maggiore dignità ed
autonomia al danno tanatologico. Ad esempio la Corte di Cassazione, sezione
lavoro, con la sentenza del 18 gennaio
2011, n. 1072, pur rifacendosi alla ormai tradizionale affermazione secondo cui
l'evento morte non rileva di per sé ai fini del risarcimento, atteso che la
morte sarebbe fuori dal danno biologico – poiché, si dice, il danno alla salute
presuppone pur sempre un soggetto in vita – quasi inaspettatamente poi afferma
che “nessun danno alla salute è più
grave, per entità ed intensità, di quello che, trovando causa nelle lesioni che
esitano nella morte, temporalmente la precede. In questo caso, infatti, il
danno alla salute raggiunge quantitativamente la misura del 100%, con
l'ulteriore fattore "aggravante", rispetto al danno da inabilità
temporanea assoluta, che il danno biologico terminale è più intenso perché
l'aggressione subita dalla salute dell'individuo incide anche sulla possibilità
di essa di recuperare (in tutto o in parte) le funzionalità perdute o quanto
meno di stabilizzarsi sulla perdita funzionale già subita, atteso che anche
questa capacità recuperatoria o, quanto meno stabilizzatrice, della salute
risulta irreversibilmente compromessa. La salute danneggiata non solo non
recupera (cioè non "migliora") nè si stabilizza, ma degrada verso la
morte; quest'ultimo evento rimane fuori dal danno alla salute, per i motivi
sopra detti, ma non la "progressione" verso di esso, poichè durante
detto periodo il soggetto leso era ancora in vita (in tal senso, Cass. sez. 3^,
23.6.2006 n. 3766)”. In conseguenza
di tali affermazioni, la Suprema Corte afferma di dover aderire al principio secondo cui, in caso di lesione che
abbia portato a breve distanza di tempo ad esito letale, sussiste in capo alla
vittima che abbia percepito lucidamente l'approssimarsi della morte, un danno
biologico di natura psichica, la cui entità non dipende dalla durata
dell'intervallo tra lesione e morte, bensì dall'intensità della sofferenza
provata dalla vittima dell'illecito ed il cui risarcimento può essere reclamato
dagli eredi della vittima. (in senso non dissimile si erano già espresse,
peraltro, Cass. sez. 3^, 14.2.2007 n. 3260; Cass. sez. 3^, 2.4.2001 n. 4783). Ritenuta pertanto l'irrilevanza del lasso di tempo intercorrente fra il
sinistro e l'evento letale, la Corte osserva che il giudice, nel caso ritenga
di applicare i criteri di liquidazione tabellare o a punto, debba procedere
necessariamente alla cd. "personalizzazione" degli stessi, costituita
dall'adeguamento al caso concreto atteso che, come già più volte ribadito dalla
stessa Corte, la legittimità dell'utilizzazione di detti ultimi sistemi
liquidatori è pur sempre fondata sul potere di liquidazione equitativa del
giudice.
Tale ultimo pronunciamento risulta
particolarmente significativo, sotto diversi punti di vista. In esso, come
visto, si afferma che con la morte il danno alla salute raggiunge
quantitativamente la misura del 100%, con l'ulteriore fattore
"aggravante", rispetto al danno da inabilità temporanea assoluta,
della non recuperabilità di qualunque funzionalità perduta. La morte, pur
rimando fuori dal danno alla salute, ne costituisce la sua
"progressione". In tale prospettiva, a nostro parere, il danno da
perdita della vita assume una nuova autonomia, emancipandosi dalla prospettiva
classica che lo vede vincolato ai criteri risarcitori normalmente utilizzati
con il danno biologico, per il quale, giustamente, l’elemento temporale assume
un’importanza centrale nella determinazione della liquidazione del risarcimento.
Infatti, se il danno per la perdita della vita va considerato come l’estrema
“progressione” del danno alla salute e per ciò stesso è “più grave, per entità ed
intensità, di quello […]” delle “lesioni”,
allora, come logica conseguenza, esso dovrà essere ritenuto risarcibile di per
sé, anche in assenza di un apprezzabile intervallo
tra lesione e morte. Si dovrebbe anzi concludere, sul filo della
coerenza, che anche la sofferenza
provata dalla vittima dell'illecito debba ritenersi di importanza relativa,
necessaria casomai per determinare il quantum
e non l’an del risarcimento. In extremis, si potrebbe arrivare ad affermare la risarcibilità del
danno tanatologico anche in caso di morte immediata.
Peraltro, una tale conclusione non sarebbe da
considerarsi eccessiva né aliena rispetto ai principi propri del nostro
ordinamento. Laddove, infatti, la vita venga intesa e tutelata, come sarebbe
giusto, alla stregua di un bene primario dell’individuo – così come avviene con
il diritto alla salute – una tale conclusione apparirebbe naturale ed ovvia. Né
mancherebbero le norme a cui un tale riconoscimento ed una tale tutela
potrebbero ancorarsi. Fra queste, ovviamente, vi sarebbe l'art. 2 della Costituzione,
da interpretarsi in combinato disposto con la Dichiarazione universale
dei diritti dell'uomo del 1948 e con la Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali
del 1950.
Tali
norme, infatti, avendo ad oggetto la tutela della persona e della sua esistenza
possono ben costituire le fondamenta su cui edificare una tutela piena ed
efficace del diritto alla vita, intesa come bene autonomamente risarcibile,
laddove venga leso.
Chiaramente, nell’ultima sentenza riportata, la
Suprema Corte non arriva certo ad affermare tanto, limitandosi a dichiarare che
l’entità del danno da morte non dipende dalla durata dell'intervallo tra lesione
e morte, bensì dall'intensità della sofferenza provata dalla vittima
dell'illecito, il cui risarcimento può essere reclamato dagli eredi della
vittima. Ciò non di meno le argomentazioni in essa sviluppate, le quali
riconoscono un’autonoma dignità al “bene” vita, appaiono ricche di spunti che
lasciano intravedere un possibile positivo sviluppo nel senso appena illustrato
ed auspicato.
Avv. Davide Rolli
Coordinatore Centro Studi e Ricerche - "Danni alla persona"
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